"Fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 k. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera.”
Raoul Pupo
Esattamente quattordici anni fa, nel 2005, gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila connazionali torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie jugoslave alla fine della seconda guerra mondiale.
A questo dramma seguì poi l’altro, non meno straziante, dell’esodo forzato di circa 300.000 italiani costretti a lasciare le loro case e terre, diventate territorio jugoslavo, per riparare in Italia, dove molto spesso furono accolti con disprezzo e diffidenza, identificati tout court come sostenitori del caduto regime fascista.
Nella convinzione che tutte le vittime innocenti debbano essere commemorate, e che la comune appartenenza all’umanità debba precedere ogni orientamento politico, riportiamo queste parole dello scrittore Fabio Magris, nelle quali oltre al dolore si apre una prospettiva di speranza che, come sempre, è affidata ai nostri giovani e alla loro capacità di progettare altre dimensioni di vita.
Foibe
Ossa spezzate
atroci agonie
l'uomo ha superato Caino.
Come bestie torturate
legati ai polsi con vile fil di ferro
gettati ancor vivi nell'oscurità.
Massacro senza limiti
sterminio,
carneficina,
eccidio,
genocidio,
inumani vendette,
stragi e rappresaglie
coperte da anni e anni di silenzio
per politiche infami.
Ora,
nei prati di Basovizza,
un masso di pietra carsica
sigilla la vergognosa tomba
dei dodicimila infoibati.
Non si odono più
tormentosi lamenti
ma solo frusciar del vento
e..
poco lontano
un ragazzino sorridente
fa volare il suo aquilone.