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Anche quest’anno si avvicina il giorno della memoria, appuntamento importante nel quale rinnoviamo collettivamente ed individualmente lo sforzo di tenere desta la coscienza sull’abisso del male perpetrato dal totalitarismo nazista, e di coltivare pensieri di forza e speranza per formare una sponda attiva contro le degenerazioni nelle quali tale mostruosità potrebbe ricomparire, coscienti che si tratta di un “costante pericolo (che) ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire”, come lucidamente scrive Hannah Arendt nelle pagine finali de “Le origini del totalitarismo”. Ma cosa è apparso sulla scena della storia in quei terribili eventi? A pensarci bene la violenza e le atrocità hanno purtroppo costellato da sempre la scena della storia: gli Armeni deportati e massacrati nelle “marce della morte”, i Cinesi oggetto di inenarrabili violenze nei massacri di Nanchino sono solo esempi di quanto sadico e perverso possa essere l’uomo nella sua sete di dominio e sopraffazione. Ma nei campi di sterminio, dove pure la violenza e la crudeltà si dispiegarono orribilmente, è emersa una nuova caratterizzazione del male, quello che la Arendt definisce “banale”: a scuotere profondamente la coscienza non è solo la tragica serie di delitti efferati, ma soprattutto il fatto, sconvolgente e inconcepibile, che gli stessi autori e organizzatori di questi atti fossero in grado, la sera, di tornare a casa, ascoltare Schubert e accarezzare i loro bambini come se niente fosse accaduto, come se, da bravi impiegati, avessero eseguito semplicemente le disposizioni del capufficio. Che si sentissero, come il famigerato Eichmann, giustificati perché eseguivano ordini dettati da un sistema di cui avevano accettato pienamente le basi perverse, al quale si erano conformati in modo totale, abdicando alla più preziosa facoltà umana: la capacità di pensare, di giudicare autonomamente, di accollarsi la responsabilità del proprio agire e di essere in continuo dialogo con la realtà. Questa ideologia portava in sé la “scelta aberrante di creare le condizioni per la cancellazione di ogni traccia di umanità sulla faccia della Terra”.

L’indifferenza, il disinteresse per il comune destino, la mancanza di empatia e compassione sono i sintomi della disumanizzazione che è sempre dietro l’angolo: quando gli uomini dimenticano che solo con la propria fragile ma viva resistenza comune, stringendosi nella “social catena” di Leopardi e di Camus, solo appoggiandosi e riconoscendosi reciprocamente possono far fronte alle sfide della vita e del destino, allora  compare il male “banale”, immediatamente alla portata di tutti, il quale “agisce come un parassita che si diffonde sulla superficie dell’esistenza umana erodendone quella patina, sottile ma essenziale non meno dell’epidermide per il corpo umano, che ne definisce la più profonda ragion d’essere”.

L’unico antidoto al male deve essere coltivato e ravvivato nella coscienza del significato dell’essere umano: “l’umanità dell’uomo non è un dato, bensì un progetto, nel senso che essa si realizza come bene solo in quanto prodotto dall’iniziativa umana. Suo primo nemico è la pura passività perché, come detto, il bene, la felicità, la presenza sono unicamente il frutto della resistenza umana alla necessità, al fato”

(Citazioni tratte da Donaggio-Scalzo Sul male a partire da Hannah Arendt)

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