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DALLA STORIA IMPARIAMO CHE NON IMPARIAMO DALLA STORIA (G.W.F. Hegel)

Ricordiamo oggi il 27 Gennaio 1945, quando i soldati sovietici, giunti nella Polonia occupata, abbatterono i cancelli di Auschwitz e misero di fronte alle coscienze del mondo intero l’orrore della barbarie nazifascista nella sua estrema ed infernale realizzazione. Da allora questa data rimanda non solo all’immane tragedia vissuta dal popolo ebraico durante la guerra, ma rappresenta e simbolicamente rinnova la memoria di coloro che hanno sofferto l’esclusione, la discriminazione, la prigionia, la deportazione o la morte solo perché, per diversi ed insensati motivi, non corrispondevano ad un “modello” d’uomo ideologicamente fissato.

Ormai è passato molto tempo, il ricordo è impallidito e forse non ci colpisce più con la stessa immediatezza, ma non si può affermare con sicurezza che il baratro in cui precipitò il mondo allora non possa spalancarsi di nuovo. Il totalitarismo, i cui tratti distintivi – ricordiamolo - non sono la violenza e la sopraffazione, purtroppo comuni a tante altre brutte pagine di storia, ma la pretesa di egemonizzare la vita dell’uomo e di trasformarlo in un passivo esecutore, succube di un’ideologia che interpreta la realtà in modo distorto ed impedisce la libera affermazione della personalità umana, “ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire, al pari di altre forme che (...) hanno accompagnato l’umanità a prescindere dalle temporanee sconfitte”, scrive Hannah Arendt nelle ultime pagine del suo celeberrimo saggio.

E aggiunge: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c'è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso. (...) Tutti i fatti possono essere cambiati e tutte le menzogne rese vere. (...)  La realtà  (...)   è diventata un agglomerato di eventi in continuo mutamento e di slogan in cui una cosa può essere vera oggi e falsa domani. (...)  Ciò in cui ci si imbatte non è tanto l'indottrinamento, quanto l'incapacità o l'indisponibilità a distinguere tra fatti e opinioni.”

L’occultamento della verità, tanto facile in quest’epoca dotata di mezzi di comunicazione potentissimi ma anche molto manipolabili, è all’ordine del giorno, così come l’acritica e settaria adesione a opinioni rigide ed estremizzate, che non prevedono se non l’ascolto di ciò di cui siamo già convinti. Il bombardamento di notizie senza pause di riflessione e di esperienza concreta, la confusione tra il virtuale e il reale, alla fine generano l’indifferenza, l’equivalenza di ogni fatto, sicché non si batte ciglio di fronte a stragi di innocenti se queste sono perpetrate dalla parte considerata “giusta”.

Rileggiamo a questo proposito ciò che Lévinas scriveva profeticamente nel 1976, rivolgendo il pensiero alle giovani generazioni e sottolineando l’importanza del rafforzamento della vita interiore come antidoto dell’indifferenza e dell’omologazione:

“Per vivere in maniera umana, gli uomini hanno bisogno di molto, ma molto meno, rispetto a ciò che offrono le magnifiche civiltà in cui vivono: ecco la prima verità. (...)  

Ma – seconda verità – e anch’essa è collegata ad un’antica certezza e ad un’antica speranza – nelle ore decisive, quando la caducità di tanti valori si rivela, tutta la dignità umana consiste nel credere al loro ritorno. Il supremo dovere, quando “tutto è permesso”, consiste nel sentirsi già responsabili nei confronti di quei valori di pace. (...)  

Ma – terza verità – è necessario, ormai, nell’inevitabile ripresa della civiltà e dell’assimilazione, insegnare alle generazioni nuove la forza indispensabile per essere forti nell’isolamento (...)  e restituire alla vita interiore un nuovo privilegio. La vita interiore: si ha quasi vergogna a pronunciare, davanti a tanti realismi e oggettivismi, quest’espressione insignificante.”

 

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